Bianco x Nero = Nero

Bianco x Nero = Nero

Autore:  Jorge Majfud

The University of Georgia

 

Tradotto da  Giorgia Guidi

 

Il centro dei dibattiti all’interno del partito Democratico degli Stati Uniti è un caso interessante e, qualunque sia il risultato, significherà un cambiamento relativo. Non è una sorpresa per coloro che lo hanno visto da una prospettiva storica. Senza dubbio, la più probabile vittoria di Hillary Clinton non sarà così significativa come può esserlo quella di Obama. Non li separa tanto il genere o la razza, ma un divario generazionale. Una, rappresentante di un passato egemonico; l’altro, rappresentante di una gioventù un po’ più critica e disillusa. Una generazione, credo, che opererà cambiamenti importanti nel prossimo decennio.

Ciononostante, in fondo in fondo, quello che ancora non è cambiato radicalmente sono i vecchi problemi razziali e di genere. Il centro, e soprattutto, l’essenza dei dibattiti sono stati: gender or race, mentre si afferma il contrario. È significativo che nel mezzo di una crisi economica e di timori di recessione, le discussioni più accalorate non siano sull’economia, ma sul genere e sulla razza. Nella potenza economica che, dovuto alla sua economia, ha dominato o influito sulla vita di quasi tutti i paesi del mondo, l’economia non è stato quasi mai il tema centrale come può esserlo in paesi come quelli latinoamericani. Forse capisco che il disinteresse per la politica sia proprio della popolazione di una potenza politica di livello mondiale. Quando ci sono un deficit fiscale o delle cadute del PIL o l’indebolimento del dollaro, i più conservatori hanno sempre tirato fuori i loro temi preferiti: la minaccia esterna, la guerra di turno, la difesa della famiglia, la negoziazione di diritti civili alle coppie dello stesso sesso e, in generale, la difesa dei “valori”; questo è, i valori morali secondo le loro interpretazioni e i loro profitti. Ma adesso le più recenti indagini indicano che l’economia è diventata uno dei temi principali di attenzione per la popolazione. Questo succede ogni volta che il macchinario economico si avvicina a una recessione. Ciononostante, i candidati alla presidenza temono di staccarsi troppo dal discorso conservatore. Forse Obama è andato un po’ troppo lontano in questo distacco, criticando l’abuso della religione e un certo tipo di patriottismo mentre Hillary ha riscattato il breve ed efficace ritornello del suo sposo che nel 1992, nel mezzo della recessione della presidenza di George W. Bush, lo ha portato alla vittoria: “it’s the economy, stupid”. Il suo facile consumo si deve a questa semplicità che capisce la generazione McDonald.

Hillary Clinton è figlia di un uomo e di una donna ma, malgrado quello che possa dire la psicoanalisi, tutti la vedono come una donna, and period. Barack Obama è figlio di una bianca e di un nero, ma è nero punto e basta. Quest’ultimo si deduce da tutto il linguaggio che viene impiegato nei mezzi di comunicazione e all’interno della popolazione. Nessuno ha osservato qualcosa di tanto ovvio come il fatto che possa essere considerato tanto bianco quanto nero, se si ammettono quelle categorie arbitrarie. Ciò rappresenta la stessa difficoltà che si ha nel vedere la mescolanza di culture nel famoso “melting pot”: gli elementi vengono mescolati, ma non si mescolano. Dalla fusione di rame e stagno non nasce il bronzo, ma rame e stagno. Si è bianco o si è nero. Si è ispano-americano o si è asiatico. Chi ne è danneggiato è John Edwards, un  talentuoso uomo bianco che è venuto fuori dalla povertà e sembra non averla dimenticata, ma non ha nulla di politicamente corretto per essere affascinante. Non è neppure brutto o maleducato, qualcosa che possa muovere un pubblico compassionevole.

Ma le parole possono e in politica quasi sempre lo fanno, creano la realtà opposta: Hillry Clinton ha detto pochi giorni fa, in Carolina del Sud, che amava queste primarie perché sembra che verrà nominato un afro-americano o una donna e nessuno perderà neppure un solo voto a causa del suo genere, qui si evita la parola “sesso”, o della sua razza (“I love this primary because it looks like we are going to nominate an African-American man or a woman and they aren’t going to lose any votes because of their race or gender”). Ragione per la quale Obama parla alle donne e Hillary agli afro-americani. Ragione per la quale, la Florida e la California, due degli stati più ispano-americani dell’Unione faranno resistenza ad appoggiare Obama, il rappresentante dell’altra minoranza.

Così, mentre abitudinariamente si è passati a disprezzare la qualifica di “politicamente corretto”, nessuno vuole smettere di esserlo. I dibattiti delle elezioni 2008 mi ricordano la Scatoletta Felice di McDonald. Tanto spreco di allegria, felicità, sorrisi allegri non necessariamente significano salute. La Segretaria di Stato della più grande potenza mondiale è una donna nera. Da tempo, una donna afro-americana ha più influenza su vasti paesi di milioni di uomini bianchi. Ciononostante, la popolazione nera degli Stati Uniti, come quella di molti paesi latinoamericani, non è ancora proporzionalmente rappresentata all’ interno delle classi alte, nelle università e nei parlamenti mentre la sua rappresentanza è eccessiva nei quartieri più poveri e nelle carceri dove competono a morte con gli ispano-americani a causa dell’egemonia di questo dubbioso regno.

Jorge Majfud

 

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Historia de un perdedor

Historia de un perdedor

 

Cuando un apersona escribe su currículum vitae sólo pone la lista de sus pequeños éxitos. Oculta siempre otra lista inconmensurable de fracasos y frustraciones. Yo no soy la excepción, pero de vez en cuando, como ahora, solicito incluir en mi legajo esta breve historia de frustraciones y derrotas que me enorgullecen.

En la campaña por el referéndum de 1980, las radios y la televisión de Uruguay repetían simpáticos jingles a favor del Sí. “Sí, por mi país, Sí por Uruguay, Sí por el progreso y Sí por la paz. Sí por el futuro, vamos a votar…” Aquellos que impulsaban la opción por el No para impedir que la dictadura militar se legalizara a sí misma, tenían negada la misma libertad de propaganda. Por entonces yo tenía diez años y no podía entender que los limpiaparabrisas funcionando un día de sol significaba un guiño anónimo que decía “no, no”. Por supuesto, como muchos votantes mayores, yo repetía esa simpática canción que aseguraba un país feliz y en paz, ante la mirada silenciosa y resignada de mi madre. Ella odiaba profundamente la dictadura y para evitarme problemas en la escuela no me aclaraba que esa bonita canción era parte de la misma violencia moral organizada por aquellos cavernícolas en nombre del progreso y la paz. Razón no le faltaba; una compañera de mi clase invirtió el jingle cambiando el Sí por el No y las maestras la mandaron a un rincón, a mirar la pared hasta que sonó la campana del mediodía. La inocencia que mis padres habían logrado reconstruir en mí, volvió a tropezar y darse de nariz ese día. Así creció mi Generación del Silencio, alimentada a base de mentiras y miedo.

El No ganó en noviembre de 1980. Es decir, para el caso, felizmente yo perdí. Aunque el teniente general Queirolo, convencido del triunfo del Sí, había manifestado antes de la derrota que “a los vencedores no se les ponen condiciones” —lo que demostraba la mentalidad democrática de esa Patria—, lo cierto es que toda la historia de los vencedores democráticos que siguieron después, como en otros países del continente, estuvo siempre especialmente condicionada. Democracias Especialmente Condicionadas.

Volví a perder cuando poco después descubrí la estafa: esa bonita canción había sido hecha para aquellos señores mandíbula de piedra y uniforme que nos miraban desde arriba. Aprendí que lo que parece ser, no es. Esta estafa moral se continuó unos años después en la secundaria, abundante de profesores pro-dictadura que enseñaban materias como “Educación Moral y Cívica”, cuando nuestro gobierno no era cívico, ni educado ni mucho menos moral. En aquellos centros de adoctrinamiento cívico donde con frecuencia nos expulsaban por alguna intrascendente rebeldía, se nos repetía cada día que vivíamos en una democracia, aunque en un período excepcional. Ese período excepcional duró once años, hasta 1984, y sus consecuencias se prolongaron por un par de décadas más, hasta el 2004. Mejor dicho, hasta hoy, cada vez que la justicia debe mendigar a la secta de los antiguos militares una palabra, un dato, un reconocimiento, un muerto.

En todas las elecciones que seguí con pasión en los años ‘80, todas ganó el partido Colorado, cuando mi interés estaba depositado en el otro partido tradicional, porque allí estaba un tal Wilson Ferreira, disidente pero tradicionalista como mi padre.

En 1989 voté por primera vez en un referéndum que pretendía derogar la ley que perdonaba los crímenes de lesa humanidad a los dictadores todavía con vida. Por supuesto que volví a perder, esta vez como feliz votante. La opción que defendía la impunidad de los militares había convencido a la mayoría de la población de lo bien que habíamos logrado la Paz perdonando crímenes de Estado. Al volver a la soledad de mi pequeño taller de estudiante, pinté en una pared: “Ha vencido el miedo. La razón histórica deberá esperar aún mucho más”. De todas formas siempre dejo en la razón un espacio para la duda, ya que la razón es la única que se atreve a dudar.

En las elecciones siguientes voté a un partido nuevo, el partido Verde Eto-Ecologista del profesor Rodolfo Tálice (1899-1999), que por entonces tenía noventa años y una energía intelectual como pocos. En la noche del 26 de noviembre de 1989 encendí la radio y, por casualidad, escuché el recuento de votos de la escuela donde yo había votado por la mañana: cientos de votos para un partido, cientos para el otro, “y un solo voto para el Partido Verde”, aparentemente anulado por estar plegado de forma inhabitual.

Durante los años ’90, voté a la izquierda. Eran los años de la euforia neoliberal de los partidos conservadores en Uruguay y de Menem en Argentina. En mi última elección en Uruguay, en 1999, estuve a punto de participar en la fiesta del triunfo histórico de la oposición. Más que un triunfo de la izquierda me interesaba la derrota de la derecha, enquistada en el poder desde el gobierno y sus onerosos cargos de confianza hasta el más humilde y con frecuencia improductivo cargo de desconfianza. Esa noche llegué a Montevideo mirando por la ventana del bus el clima de fiesta del Frente Amplio. Las encuestas a boca de urna lo daban como ganador. Al llegar a mi apartamento no pude entrar porque la llave se había roto y tuve que esperar cuatro o cinco horas hasta que un cerrajero lograse abrirla. Mientras, por el hall de entrada del edificio veía cómo los tradicionalistas poco a poco comenzaban a tomar las calles con sus banderas coloradas. Los mismos de siempre. Había ganado Jorge Batlle. Otra vez había perdido mi candidato.

Tal como lo anticipamos repetidas veces a mediados de esa década, pronto, cuando se agotara el recurso de ventas del modelo neoliberal criollo, sobrevendría la crisis. La crisis llegó en el 2001 en Argentina y un año después en Uruguay. Fue la peor en un siglo. Como a tantos obreros, profesionales o profesores de la clase media, a mí me afectó directamente. Por entonces era común trabajar siete meses cobrando medio sueldo. La otra mitad se recibía en cómodos insultos y humillaciones. Mientras los bancos se llevaban los ahorros y nuestros sueldos a otros paraísos financieros, yo aceptaba la invitación de un profesor norteamericano para continuar mi carrera en el exterior.

Cuando el partido de la oposición en Uruguay venció por primera vez en las elecciones del 2004, yo ya estaba en Estados Unidos. Tuve que imaginarme a través de los diarios esos ríos de gente festejando por las avenidas de todo el país. Nunca profesé admiración ciega ni grandes preferencias por ningún hombre o mujer dentro de ningún partido. Me lamentaba por no poder experimentar esa fiesta popular, compartir una vez en mi vida esa alegría, ese desconocido sentimiento de haber ganado en una contienda política, al menos como anónimo votante.

Ese mismo año, ese mismo mes, había asistido muy de cerca el proceso electoral entre demócratas y republicanos. Sin muchas esperanzas, estuve meses, días, horas, minuto a minuto observando el desarrollo y las estadísticas de las elecciones. Con un repentino dolor de muela, la noche de las elecciones tuve que asistir a la derrota de John Kerry y John Edwards, aparentemente la mejor opción.

Este año de 2008 no he podido evitar interesarme profundamente por el proceso electoral de Estados Unidos. Hace pocos días escuché de principio a fin el discurso que dio Barack Obama el 18 de marzo. Supuestamente debía ser una forma de defensa por las acusaciones que le hicieran de ser el amigo y aconsejado de un pastor “antipatriótico” y teólogo de la liberación. Obama no se defendió sino que, con elocuente precisión, pasó a la ofensiva y apuntó a la tradición de la disputa política de este país, a sus tabúes raciales y a las estrategias propagandísticas de la derecha en el poder. En un programa de televisión alguien se quejó del señor Obama: “nos ha insultado, por primera vez alguien nos ha tratado como si fuésemos adultos”. Aunque con algunos lugares comunes —al fin y al cabo es un político que necesita votos— me pareció un discurso intelectualmente impecable, frontal y organizado con el talento de un genio de la política. No obstante, por primera vez en muchas semanas, su rival demócrata, Hillary Clinton, lo ha pasado en las encuestas generales. De ganar Obama no significará un cambio radical en nada, pero sí el mayor y el mejor cambio posible. Aún perdiendo, no creo que en los años por venir se pueda evitar un terremoto generacional que irá más allá de la política.

He tenido la dudosa suerte de vivir en un tiempo interesante. Cruel, casi siempre abominable, pero interesante. Está de más decir que mi influencia en la política de mi país o de cualquier otro país ha sido y será siempre nula. No deseo otra cosa. Pero por las dudas yo le advertiría a cualquier candidato que nunca trate de conquistar mi preferencia.

 

 

Jorge Majfud

Athens, marzo 2008

 

 

¿De dónde viene la voz del pueblo?

 

Es probable que así como la rima servía a los trovadores para memorizar historias en una antigüedad sin prensa escrita, el ingenio cumpla la misma función de ayudamemoria. Pero si ingenio no es lo opuesto a genio, mucho menos es su sustituto. De ahí las fábulas y las parábolas. O los sofismas como: “Puedo resistir cualquier cosa, menos la tentación” (atribuido a Óscar Wilde); “un comunista es alguien que ha leído a Marx; un anticomunista es alguien que lo ha comprendido” (ídem, Ronald Reagan); o las más inteligentes ocurrencias de Groucho Marx. El sofisma es una minúscula pieza de ingenio que con frecuencia sustituye o pretende disimular la carencia de un pensamiento más complejo, algo así como el Reader’s Digest de la cultura universal.

La esperanzadora y popular frase de Lincoln, “puedes engañar a todos por poco tiempo, a unos pocos por todo el tiempo, pero no puedes engañar a todos por todo el tiempo” se parece a la de Churchill, “nunca tantos le debieron tanto a tan pocos”. Tal vez la geometría fonética – “…all the people part of the time, and part of the people all the time, but not all the people all the time”- conspire contra la verdad histórica. Depende lo que significa “poco tiempo” o “unos pocos”. Para déspotas y dictadores tal vez un par de décadas sea “tan poco”, pero para quienes deben sufrirlos media hora sea “tanto tiempo”.

Por otro lado, quién sabe si “engañar a mucha gente por mucho tiempo” no es otra forma triste de la verdad: si una mentira dura lo que dura una civilización, entonces ¿cómo vamos a definir esa mentira? Durante siglos, la idea de que el Sol giraba alrededor de la Tierra era unánime. El viejo sistema de Ptolomeo -bastante nuevo si consideramos que otros griegos entendían que en realidad la Tierra se movía alrededor del Sol- era la vox populi sobre cosmología. Los cálculos que consideraban el modelo de Ptolomeo podían predecir eclipses. Ese modelo cosmológico se derrumbó, poco a poco, a partir del Renacimiento. Hoy en día el heliocentrismo es vox populi. Suena por lo menos ridículo decir que en realidad el Sol gira alrededor de la Tierra. Sin embargo, esta realidad es innegable. Hasta un ciego puede verlo. Desde el punto de vista de un terrícola, paradójicamente nuestro punto de vista más común y casi siempre el único, lo que gira es el Sol, no la Tierra. Y si consideramos el primer principio einsteniano de que no hay punto de vista privilegiado ni sistema de observación único en el Universo, no hay ninguna razón para negar que el Sol gira alrededor de la Tierra. La idea heliocéntrica sólo es válida para un punto de vista (imaginario) exterior al Sistema Solar, punto de vista más simple y de más alta estética -de ahí su superioridad científica-, nunca experimentado por ser humano alguno pero fácil de concebir.

Otra paradoja de esta frase prefabricada: una de las primeras menciones escritas de vox populi, vox Dei la hace Flaccus Albinus Alcuinus hace más de mil años, precisamente para refutarla: …tumultuositas vulgi semper insaniae proxima sit (“…la cordura del vulgo es más bien locura”). Su raíz pagana y tal vez demagógica, autoriza al pueblo en nombre de Dios, pero/y es utilizada por toda una gama de ateos o anticlericales. Por otro lado, la burocracia que le han inventado a Dios para ayudarlo a administrar su Creación, ha practicado históricamente el lema contrario: “El poder del rey procede de Dios”. Por lo menos desde Tutankamon hasta los generalísimos y (no) muy católicos Franco, Videla, Pinochet y los neoconservadores norteamericanos. Tampoco El Vaticano recurrió jamás a la vox populi para elegir la vox Dei. ¿Cómo habría Dios de dotarnos de inteligencia y luego exigirnos una conducta de rebaño?

Desde los tiempos en que imperaba la propaganda feudal y teocrática y en tiempos de los reyes absolutistas, la vox populi fue una creación de (1) púlpitos y pupitres y de (2) historias populares de reyes y de princesas. No muy diferente a (2) las más actuales telenovelas y a las revistas de Ricos&Famosos donde se exponen las elegantes miserias de las clases dominantes para consumo moral del pueblo. Diferente, aunque no tanto, se forma hoy la vox populi en (1) los estrados políticos y los mass media dominantes.

No muy diferente de aquel primer debate blanco y negro de Nixon-Kennedy. ¿Existe algún candidato que se atreva a desafiar la sagrada opinión pública? Sí, sólo aquel que sabe no tiene probabilidades serias de ganar y no teme meter el dedo en la llaga. Pero los políticos con chance no pueden darse el lujo de incomodar esa vox populi, razón por la cual suelen acomodar el cuerpo hacia todo tipo de centros -el espacio ideológico creado por los medios- en nombre del pragmatismo. Si el objetivo mediato es la pesca de votos, ¿alguno se atrevería a decir algo que, de antemano, sabe que no caerá bien en la masa votante? Los candidatos no debaten; compiten en seducción, como si estuviesen cantando por un sueño.

Ahora, ¿quiere decir todo eso que el pueblo tiene la autoridad de imponer una conducta a sus propios candidatos? ¿Quiere decir que el pueblo tiene el poder? Para responder debemos considerar si esa opinión pública no es frecuentemente creada, o al menos influenciada por los grandes medios de comunicación -título de por sí falso y a veces demagógico-, como en la Edad Media era creada e influenciada desde el pupitre y la comunicación se reducía al sermón y el mensaje era, como hoy, el miedo.

Claro, no voy a defender la libertad de prensa en Cuba. Pero por otra parte, la repetida libertad de prensa del autoproclamado mundo libre bajo la lupa no luce igual. No me refiero sólo a la democrática autocensura de quien teme perder su empleo, o a los desempleados políticos que deben maquillar sus ideas para convencer a un posible empleador. Si en los países no libres la prensa está controlada por el Estado, ¿quién controla los medios y los fines en el mundo libre? ¿El pueblo? ¿Alguien que no pertenezca a la selecta familia de los grandes medios que ejercen la cobertura mundial, puede decidir qué tipo de noticias, qué tipo de ideas debe dominar el aire, la tierra y los mares como el pan nuestro de cada día? Cuando se dice que la nuestra es una prensa libre porque está regida por la libertad del mercado, ¿se está argumentando a favor o en contra de la libertad de la prensa y de los pueblos? ¿Quiénes deciden qué noticias y qué verdades deben ser repetidas 24 horas por CNN, Fox o Telemundo? ¿Por qué Paris Hilton llorando por dos semanas de cárcel -y luego vendiendo la historia de su delito y de su conversión moral- es primera plana y los miles de muertos por injusticias evitables son apenas un número junto con el pronóstico del tiempo?

Para completar la (auto)censura en nuestra cultura, cada vez que alguien se atreve a poner una lupa o garabatear interrogantes, es acusado de preferir los tiempos del estalinismo o algún rincón de Asia, donde la teocracia impera a su antojo. Éste es, también, parte de un conocido terrorismo ideológico del cual debemos estar intelectualmente alertas y resistentes.

La historia demuestra que los grandes cambios han sido impulsados, previstos o provocados por minorías atentas a las mayorías. Casi por regla, los pueblos han sido más bien conservadores, quizás debido a las históricas estructuras que le impusieron obediencias de plomo. La idea de que “el pueblo no se equivoca”, se parece mucho a la demagogia de “el cliente siempre tiene la razón”, aunque esté escrita con la otra mano. En el mejor sentido (humanístico), la frase vox populi, vox Dei puede referirse no a que el pueblo tiene necesariamente la razón, sino a que el pueblo es su propia razón. Es decir, toda forma de organización social lo tiene a él como sujeto y objeto. Excepto en una teocracia, donde esta razón es un dios que se arrepintió de haberle conferido libre albedrío a sus pequeñas criaturas. Excepto en el mercantilismo más ortodoxo, donde el fin es el progreso material y los medios la carne humana.

 

 

 

Jorge Majfud

The University of Georgia

Julio 2007

 

 

 

Where Does the Voice of the People Come From?

 

If naïve is not the opposite of genius, it is also not its substitute. This is the origin of fables and parables. Or of sophisms like: “I can resist anything, except temptation” (attributed to Oscar Wilde); “a communist is someone who has read Marx; an anti-communist is someone who has understood him” (Ronald Reagan); or Groucho Marx’s smartest bits. The sophism is a miniscule piece of naivety that frequently stands in for or pretends to cover up the absence of a more complex thought.

Lincoln’s hopeful and popular statement, “you can fool all the people part of the time, and part of the people all the time, but not all the people all the time,” is similar to Churchill’s, “never before have so many owed so much to so few.” Perhaps phonetic geometry – “…all the people part of the time, and part of the people all the time, but not all the people all the time” – conspires against historical truth. It depends on the meaning of “part of the time” and “part of the people.” For despots and dictators perhaps a couple of decades might be “so few” but to those who must suffer them a half an hour might be “so much time.”

For centuries, the idea that the Sun revolved around the Earth was unanimous. Ptolemy’s old system – pretty new if we consider that other Greeks believed that in reality the Earth moved around the Sun – was the “vox populi” on cosmology. The calculations that took Ptolemy’s model into account were able to predict eclipses. That cosmological model was overturned, bit by bit, beginning with the Rennaissance. Today heliocentrism is the “vox populi.” It at least sounds ridiculous to say that in reality the Sun revolves around the Earth. Nevertheless, this reality is undeniable. Even a blind man can see it. From the point of view of an earthling, what revolves is the Sun, not the Earth. And if we consider the first Einsteinian principle which holds that there is no privileged point of view nor solitary system of observation in the Universe, there is no reason to deny that the Sun revolves around the Earth. The heliocentric idea is only valid for a (imaginary) point of view outside the solar System, a simpler and more aesthetically accomplished point of view.

One of the first written mentions of vox populi, vox Dei is made by Flaccus Albinus Alcuinus more than a thousand years ago, precisely in order to refute it: …tumultuositas vulgi semper insaniae proxima sit (“…the good sense of the common people is more like madness”). Its pagan and perhaps demagogic roots authorize the people in the name of God but/and are used by a whole range of atheists or anti-clericals. On the other hand, the bureaucracy that has been invented for God in order to assist him in administering his Creation, has practiced historically the opposite slogan: “the power of the king originates from God.” At least from Tutankhamen through to the generalísimos and (not) very Catholic Franco, Videla, Pinochet and the U.S. neo-conservatives. Nor has the Vatican ever taken recourse to the “vox populi” in order to elect the “vox Dei.” How could God have given us intelligence and then demanded from us the conduct of a herd?

Since the times in which feudal and theocratic propaganda reined and in the times of the absolutist monarchs, the “vox populi” was a creation of (1) pulpits and school desks and of (2) popular stories about kings and princesses. Not very different from (2) are the most current soap operas and the magazines about the Rich&Famous where the elegant miseries of the dominant classes are placed on exhibit for the moral consumption of the people. Different from (1), although not by much, the “vox populi” is formed today on the political stage and in the dominant mass media.

Not very different from that first black-and-white Nixon-Kennedy debate. Does the candidate exist who dares to defy the sacred “public opinion”? Yes, only the one who knows that he has no serious likelihood of winning and is not afraid to stick his finger in the wound. But politicians with a chance cannot afford the luxury of making that “vox populi” uncomfortable, for which reason they tend to accommodate themselves to the center – the ideological space created by the media – in the name of pragmatism. If the ultimate goal is angling for votes, does anyone dare to say something that he knows, beforehand, will not be well received by the voting masses? Candidates do not debate; they compete in seduction, as if they were “singing for a dream.”

Now, does all this mean that the people have the authority to impose a behavior on their own candidates? Does it mean that the people have power? In order to respond we must consider whether that public opinion is not frequently created, or at least influenced by the large communication media – a title self-evidently false and at times demagogic – just like in the Middle Ages it was created and influenced from the pulpit and communication was reduced to the sermon and the message was, as today, fear.

Obviously, I am not going to defend freedom of the press in Cuba . But on the other hand the repeated freedom of the press of the self-proclaimed “free world” does not shine under close inspection. I am not referring only to the democratic self-censorship of those who fear losing their jobs, or to the unemployed politicians who must disguise their ideas in order to convince a potential employer. If in the “unfree” countries the press is controlled by the State, who controls the means (or media) and the ends in the free world? The people? Someone who does not belong to the select family of the large media that exercise “world coverage,” who can say what kind of news, what kind of ideas should dominate the air, the land and the seas like our daily bread? When it is said that ours is a free press because it is governed by the free market, is one arguing for or against the freedom of the press and of the people? Who decides which news and which truths should be repeated 24 hours a day by CNN, Fox or Telemundo? Why is it that Paris Hilton crying over a two-week jail stay – and then selling the story of her crime and of her “moral conversion” – is frontpage news but thousands of dead as a result of avoidable injustices are an item alongside the weather prediction?

In order to complete the (self)censorship in our culture, each time that someone dares to examine things closely or scribble out a few questions, they are accused of preferring the times of Stalinism or some corner of Asia where theocracy reigns at its whimsy. This is, also, part of a well-known ideological terrorism about which we must be intellectually alert and resistant.

History demonstrates that big changes have been driven, foreseen and provoked by minorities attentive to the majority. Almost as a rule, national peoples have been more conservative, perhaps owing to the historical structures that have imposed on them a leaden obedience. The idea that “the people are never wrong” is very similar to the demagoguery of “the client is always right,” even though it is written with the other hand. In the best (humanistic) sense, the phrase “vox populi, vox Dei” can refer not to the idea that the people necessarily are right, but to the idea that the people is its own truth. That is to say, every form of social organization has the people as subject and object. Except in a theocracy, where this rationality is a god who regrets having conferred free will on his little creatures. Except in the most orthodox mercantilism, where the end is material progress and the means to the end human flesh and blood.

 

 

By Dr. Jorge Majfud, August 2007.

Translated by Dr. Bruce Campbell

March 2008

 

 

 

Le faux dilemme entre la liberté et l’égalité.

 

 

1. Les différences que la liberté ne produit pas.

 

La loi V du Titre Premier de Las siete partidas, Les sept parties (*), reconnaissait le fait que le roi “est toujours mis à la place de Dieu”. Une idée semblable a survécu dans la même Espagne, huit siècles plus tard. La légende des pièces de cent pesetas à l’effigie du général Francisco Franco confirmait cette vieille prétention du pouvoir : “Caudillo de l’Espagne par la Grâce de Dieu”.

Ces lois du XIIIème siècle, promues par le roi Alfonso X le Sage, mettaient sur papier d’autres évidences. Par exemple, on reconnaissait qu’une des vertus d’honneur des chevaliers était leur cruauté. Les nobles devaient être “cruels pour ne pas avoir de remords de voler leurs ennemis, ni de les blesser ni de tuer”. (II, T 21, loi 2, pag. 195). Pour cette raison on choisissait un chevalier parmi mille – de là le mot militia, milice, militer – qui devait de préfère correspondre, selon les mêmes lois, à des bouchers, charpentiers et forgerons, parce que ces travailleurs étaient forts de leurs mains et étaient habitués à la violence.

Mais la différenciation “logique et naturelle” était non seulement de classes ; elle était aussi de sexe et de race. “Aucune femme – établissait le sage code -, bien qu’elle soit informée du droit ne peut être avocat lors d’un jugement ; et ceci pour deux raisons : la première, parce qu’il n’est pas chose nécessaire ni honnête que la femme prenne office d’homme en étant publiquement entourée avec les hommes pour raisonner pour un autre ; la deuxième, parce que anciennement l’on interdit les sages… ”  (III, T 6, loi 3, pág. 247-248) De même, les aveugles ne pouvaient pas non plus être des avocats parce qu’ils ne pouvaient pas voir les juges et leur rendre des honneurs.

Mais la loi européenne – tout comme les lois incas commentées par Guamán Poma Ayala – légiférait aussi sur le territoire intime du sexe. L’homme qui gisait avec une femme mariée n’était pas déshonoré, mais l’était bien la femme en l’imitant. Pourquoi ? Pour une raison d’inégalité naturelle : “l’adultère que fait l’homme avec une autre femme ne fait pas de dommages ni déshonore la sienne ; l’autre [oui ] parce que de l’adultère que ferait sa femme avec un autre, reste le mari déshonoré, en recevant la femme à un autre dans son lit, c’est pourquoi les dommages et les déshonneurs ne sont pas égaux, nécessaires est qu’il puisse accuser sa femme d’adultère si elle l’a fait, et elle pas à lui ; et ceci a été établi par d’anciennes lois, bien que selon le jugement de la sainte Église il ne soit pas ainsi” (T 17, Loi 2, p 402). Ce qui en passant rappelle que l’Église Catholique n’a pas toujours été plus conservatrice que la société qu’elle intégrait, bien que pour une raison politique elle tolérait des détails du type suivant : “Tellement mauvais en étant un certain chrétien qu’on retournerait juif, envoyons qu’ils le tuent pour cette raison, bien ainsi que s’il serait retourné héresiarque”  (T 24, loi 7, p 417).

 

2. Stratégies du faux dilemme.

 

Malgré toutes ces différences sociales établies par la loi et le sens commun de l’époque, le même code volumineux reconnaissait que l’esclavage est “la plus vil chose de ce monde”. (IV, T 23, loi 8). Autrement dit, “la liberté est la chose la plus chère que l’homme peut y avoir dans ce monde” (II, T 29, Loi 1, p 226).

C’est ici où nous découvrons une des aspirations humaines les plus profondes qui, en même temps, coexistait avec une violente démonstration de force imposée par le pouvoir de classe, le pouvoir de type et le pouvoir ecclésiastique. C’est-à-dire, l’élan (et l’ideoléxique) de liberté devait coexister en promiscuité avec son élan contraire : les intérêts sectaires de classe, de type, de race. Le principe de liberté n’était pas reconnu comme un processus de libération mais devait mortellement s’accommoder des inégalités établies par la tradition qui parlait et agissait – non sans violence – au nom de la liberté.

Autrement dit, l’idée de liberté ne survivait pas par les différences sociales mais malgré ces différences. Histoire qui nous rappelle toutes les dictatures modernes, qui s’appellent dictadures, dictamoles (sic. Pinochet) ou démocraties.

Nous que comprenons nous de l’histoire des cinq dernières cents années comme la progression imparfaite mais persistante de l’élan libertaire et égalitaire de l’humanisme, nous n’acceptons pas cet élément commun qu’oppose liberté à égalité. Ces égalités ne signifient pas uniformisation, élimination des diversités, mais tout le contraire : nous sommes également différents. Les différences humaines sont des différences horizontales ; non verticales. Les différences verticales sont des différences de pouvoir. Pour notre humanisme, démocratique est synonyme d’égalitaire. C’est la violence de l’inégalité celle qui impose des uniformisations ; c’est la volonté despotique d’une des parties de l’humanité sur les autres. Et la liberté est démocratique ou c’est simplement la dictature de la liberté : la dictature de quelques hommes libres sur d’autres qui ne le sont pas autant. Parce que pour exercer toute liberté nous avons besoin d’une quote-part minimale de pouvoir ; et si ce pouvoir est mal distribué, aussi le sera la liberté.

Cette vieille discussion entre liberté et égalité assume et confirme une dichotomie qui est ensuite traduite en étendards politiques et dans des discours idéologiques : depuis deux cent ans, ses noms sont libéralisme et socialisme, droite et gauche. Les positions antagoniques se disputent le terrain sémantique de la justice sociale sans mettre en question le faux dilemme posé ; en le confirmant.

L’idéal de liberté-et- d’égalité (liberté égale) est, pour le moment, une utopie : l’anarchie. Toutefois, voyons que la même valorisation négative de cet ideoléxique -l’anarchie est automatiquement associée au chaos -, non seulement est due à une raison de survie dans une société immature, mais aussi de l’exploitation primitive du plus fort. C’est-à-dire, l’organisation verticale et autoritaire de la société aurait pu avoir comme origine une raison d’organisation pour la survie du groupe, mais ensuite a dégénéré dans une tradition oppressive. C’est le cas du patriarcat ou du militarisme. Cependant, j’ose le dire, l’histoire des derniers mille ans a été une conquête progressive de l’anarchie, avec ses réactions correspondantes et logiques des oligarchies. Elle Continuera à coûter du sang et de la douleur, mais cette vague ne s’arrêtera pas .

La société étatique a survécu en Espagne jusqu’au XVIIIème siècle et de fait, bien que pas de droit, dans les sociétés latinoaméricaines jusqu’au XXe siècle : les indigènes, les créoles déshérités, les immigrants exilés, sous la commande du corregidor, du propriétaire terrien ou de la Mining & Fruit CO, ignoraient la jouissance de la pratique du droit égalitariste au nom du devoir ou de la productivité. D’une certaine manière, le libéralisme a été une forme de socialisme -tous les deux de fait sont le produit de l’Ere Moderne et de l’humanisme – ; pour tous les deux, l’individu doit être libéré des structures traditionnelles qui organisent la société de manière verticale. L’utopie marxiste d’une société sans gouvernement et sans bureaucratie – phénomène des pays communistes qui a tant déçu le Che Guevara -, ressemble beaucoup à l’utopie libérale d’une société composée d’individus libres. La différence entre ce libéralisme et le socialisme était située dans une intériorité chrétienne : pour l’un, l’égoïsme était le moteur de progrès ; tandis que pour l’autre, l’était la solidarité, la coopération. Raison pour laquelle l’un s’est mis à faire confiance au marché et l’autre dans le progrès de la morale du “nouvel homme”. La valorisation négative traditionnelle de l’égoïsme et la valeur positive de la solidarité est résolue en partie, par les nouveaux libéraux, en qualifiant l’un comme réaliste et l’autre comme ingénu. Comme réponse, les partisans de l’égalitarisme ont qualifié ce réalisme d’hypocrite et de sauvage et la prétendue ingénuité comme une valeur altruiste et humaine.

Mais la dichotomie est encore artificielle. Il suffirait de se demander : la liberté s’est elle exercée individuellement dans une société ou à travers les autres ? ; la liberté individuelle s’est exercée en collaboration ou en concurrence avec les autres ? Si la liberté de quelques uns produit de grandes différences de pouvoir, ne serait-il pas que la liberté de l’un est exercée contre la liberté de l’autre et grâce à ce raccourci ? Est-ce la même chose la liberté que le libéralisme ? Est -ce la même chose l’égalité que l’égalitarisme ? Est-ce la même chose l’individu que l’individualisme ?

Y compris en assumant qu’il y a des individus plus habiles que d’autres, pourquoi accepter que les premiers monopolisent ou accaparent des pans de pouvoir qui restreignent le pouvoir et la liberté des autres ? On assume qu’il n’y a pas de liberté dans un système qui impose l’égalité – l’égalitarisme -, mais on oublie qu’il n’y a pas non plus de liberté dans un système qui reproduit des différences qui seulement candidement peuvent être attribuées à l’“expression naturelle” des différentes habilités individuelles. Comme si quelqu’un ne savait pas que pour être un oppresseur, un exploitant ou un tyran, une grande intelligence n’est pas nécessaire ni de grandes valeurs morales : il suffit d’une ambition débordée, une cruauté inhumaine et une hypocrisie légitimée par quelque autre théorie conçue sur mesure pour le pouvoir du jour. Et quand l’opprimé ne collaborera pas, il suffit de la force anéantissante de la machine de militaire.

L’humanisme doit faire face à cette contradiction apparente sans contradiction : la recherche de liberté est seulement possible à travers une égalité progressive, de la même manière que la recherche d’égalité doit être donnée dans une libération progressive de l’humanité. Ce n’est ne pas bon d’annuler ou de retarder l’une au nom de l’autre.

 

 

Jorge Majfud

* The University of Georgia, 30 mars 2007.

 

(*) Alfonso X Le Sage. Les sept parties, 1265.

 

Traduction de l’espagnol de : Estelle et Carlos Debiasi.